lunedì 14 febbraio 2022

Il conflitto alle porte d'Europa

 

Dal 2014 è in corso tra l’Ucraina e la Russia una guerra, per il controllo di una parte della regione orientale ucraina (bacino del Doneck=Donbas) popolata prevalentemente da etnia russa, che ha causato 14.000 vittime e 1,5 milioni di sfollati.  La diplomazia internazionale è al lavoro da tempo, ma non è riuscita a trovare una soluzione in merito, in quanto sono a confronto interessi geopolitici che riguardano la Russia, l’Europa e tutto il sistema di sicurezza occidentale.

Nel settembre 2014, a Minsk capitale della Bielorussia, venne stipulato un protocollo per la stabilizzazione dell’area, sotto l’egida dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), a cui hanno partecipato rappresentanti di Russia, Ucraina e delle Rep. Popolari di Lugansk e di Doneck, dichiaratesi indipendenti all’avvio delle ostilità. Tale accordo non ha mai trovato applicazione, mentre il rischio di uno scontro militare più ampio si è via via innalzato, specie in autunno scorso, quando un grosso contingente militare russo, in assetto da guerra, è stato schierato ai confini dell’Ucraina, senza chiare motivazioni.

Del resto, assieme alla problematica del Donbas, sono in discussione altre questioni politiche, tra cui la crisi del gas e quella sui migranti al confine tra Polonia e Bielorussia. Pertanto l'Europa, sentendosi in questo momento molto vulnerabile e sotto pressione, cerca di evitare l’avvio di azioni che possano provocare Mosca. D’altro canto, in autunno scorso, Putin ha smentito ogni ipotesi d’invasione, rivendicando il diritto di condurre manovre sul proprio suolo e di rispondere non solo alle provocazioni dell’Ucraina, ma anche alle manovre navali condotte dalla NATO nel mar Nero, poco lontano dalla Crimea. Certamente l’invasione russa dell’Ucraina è uno scenario estremo, in cui Putin potrebbe vincere facilmente (la NATO non ha titolo per intervenire direttamente), ma ad un prezzo altissimo in termini economici, di vite umane e politici. Infatti, il Cremlino dovrebbe affrontare: i costi dovuti a una lunga occupazione dei territori popolati da cittadini estranei alle truppe russe, le sanzioni europee e statunitensi volte a indebolire la disastrata economia russa, il possibile arresto del progetto Nord Stream 2, il deterioramento dei rapporti con gli USA e la perdita del ruolo di mediatore in Ucraina. Sul piano prettamente militare va considerato che la potenza militare dell’Ucraina è stata rafforzata rispetto al passato, anche con il contributo degli USA, ma non è in grado di sostenere un conflitto per recuperare i territori dei cosiddetti separatisti, a prevalente etnia russa. Per le ragioni sopra descritte, si ritiene che le manovre russe ai confini dell’Ucraina abbiano essenzialmente uno scopo geopolitico, cioè: tenere alta la tensione nei confronti dei partner occidentali e destabilizzare, sul piano politico interno, il Presidente ucraino Zeleski, la cui popolarità è in continua discesa (dal 73% all’elezione al 21% attuale). In definitiva, il Cremlino chiede garanzie giuridicamente vincolanti, a lungo termine, per imporre i propri interessi di sicurezza, compresa la fine dell'allargamento della NATO e la non installazione di sistemi militari occidentali in prossimità dei suoi confini. Il suo scopo è di far rivedere l’attuale strategia della NATO e dell’Occidente per mantenere l’ eredità dell’URSS, inclusa l'annessione della Crimea. Il confronto con il Presidente Biden su questi argomenti è appena iniziato e il conflitto è lungi dall'essere risolto. Dall’ammassamento di truppe al confine ucraino-russo e sulla linea di contatto tra l’Ucraina e le regioni separatiste può sempre scaturire qualche incidente e un’escalation incontrollata del conflitto.

Nel prossimo futuro, le questioni intorno e all'interno dell'Ucraina continueranno a essere estremamente impegnative per la sicurezza europea e la diplomazia dell'UE e dell’Occidente. L'evoluzione dell’attuale situazione nel Donbas, rappresenta un banco di prova per la trasformazione democratica dello spazio post-sovietico che, a più di trent'anni dalla caduta dell'URSS, ha bisogno ancora di positive conferme.

 


sabato 11 dicembre 2021

Convivio di Natale

Ancora una volta abbiamo la gioia di celebrare la festa del Natale e di salutare un nuovo anno, con la speranza di uscire definitivamente dalla situazione difficile attuale, originata dalla pandemia. In tutte le culture le festività rappresentano l’occasione per ricordare un particolare evento, un’appartenenza, una speranza condivisa. Ma la gioia e l’atmosfera del periodo natalizio supera ogni altra ricorrenza, coinvolgendo tutti senza restrizioni e confini, anche coloro che non professano la fede nella nascita a Betlemme di Gesù di Nazareth

. Ci sono tanti aspetti che portano ad avvalorare le festività natalizie rispetto alle altre; in particolare, ritengo molto importante l’occasione, una volta all’anno, di rivedere e incontrare le persone care: genitori, figli, nipoti, parenti, amici, per trascorrere un po' di tempo insieme, senza affanni e preoccupazioni.
Gli esseri umani sentono ancora questo bisogno, specie in questo periodo di limitazioni che ci allontanano dagli altri, impedendo perfino i semplici gesti che esprimono i sentimenti di vicinanza e amicizia o la gioia di condividere una relazione. Trovarsi insieme, aprire almeno per un giorno la casa ai conoscenti che abitualmente non vivono con noi, ma che noi amiamo, cercare di combattere la solitudine, l’isolamento, a cui sovente sembriamo condannati dalla vita di oggi, questa è la magia del Natale. 
Nelle famiglie e tra gli amici, già si pensa alla preparazione della festa e naturalmente sorgono le solite domande: con chi trascorrerò il Natale? Festeggeremo a casa, in famiglia o in altra sede? Quali specialità culinarie appronteremo per allietare la tavola?  ecc. Certo ognuno vive una situazione diversa. A volte si possono anche verificare eventi inaspettati, che impediscono o adombrano la gioia e il clima festoso. Eppure il convivio e lo stare insieme durante il Natale è un rito che non tramonta, è il momento di concedersi un po' di distensione, al di fuori dei richiami ingannevoli del consumismo (scambio di regali, l’apprestamento dell’albero e degli addobbi, ecc.) e delle luci effimere della società opulenta. 
Mr. Scrooge nel “Canto di Natale” di Charles Dickens, è un banchiere avaro che considera il Natale una perdita di tempo, nella quale egli deve comunque pagare il suo contabile che come tutti trascorre la festa in famiglia e con gli amici. Durante la notte della vigilia egli è visitato da tre spiriti che gli fanno ricordare il passato, toccare con mano la realtà presente, prevedere cosa accadrà in futuro. Il vegliardo solo e chiuso nella sua stanza, stanco ed annoiato, è finalmente scosso nel suo animo e rivede le sue convinzioni. La mattina seguente, giorno di Natale, chiama il suo garzone e lo manda a comprare in un negozio vicino il più grosso tacchino in vendita e, premiandolo generosamente, lo fa portare a casa di Bob Cratchit, il suo contabile. In seguito esce per strada salutando tutti con affabilità, trovando anche la forza di presentarsi a casa di suo nipote, il quale ogni anno lo invitava, invano, a partecipare con la sua famiglia al pranzo di Natale. Accolto con calore da tutti, egli passa il più bel Natale della sua vita.
In questa favola, ancora molto istruttiva ai nostri giorni, la generosità verso gli altri, la partecipazione alla gioia comune e la convivialità sono gli elementi essenziali delle feste natalizie e di fine anno. In particolare l’incontro conviviale, appare un luogo straordinario di umanizzazione, di ascolto reciproco, di scambio delle proprie esperienze; il luogo dove superare le fatiche della vita, le sue angosce e condividerne le gioie e le aspettative. 
Nella convivialità a tavola tutti sono uguali, hanno le stesse possibilità di prendere cibo, di parlare o di ascoltare gli altri convenuti: bambini e vecchi, uomini e donne, invitanti e invitati. Chi, ritratto nel proprio individualismo, ha difficoltà di comunicare con le persone vicine, attorno ad una tavola imbandita a festa, ha l’opportunità di aprirsi, di conoscere meglio il prossimo e di fugare ogni diffidenza nei suoi confronti. E’ comunque noto che, in questo ambito, nascono spesso le relazioni sentimentali e si consolidano i rapporti affettivi più durevoli. 
L’augurio che rivolgo a tutti per le prossime festività è di ritrovare il senso, la serenità e la gioia di stare insieme alle persone a cui vogliamo bene. Buon Natale e felice anno nuovo! 

martedì 26 ottobre 2021

Crisi in Afghanistan: declino dell'Occidente?

 

Il ritiro dall’Afghanistan dei contingenti militari, dopo vent’anni di missione, ha colpito l’opinione pubblica mondiale, molti cittadini e osservatori occidentali. Le modalità e i tempi in cui si è svolto il ripiegamento hanno assunto le caratteristiche di una sconfitta militare, un colpo mortale alla credibilità dell’Occidente, al quale il popolo afghano si era aggrappato per vedere la luce di un futuro migliore sulla strada della democrazia e della modernità. Certo, il lungo periodo di presenza militare e civile occidentale ha alimentato molte aspettative di cambiamento, in particolare nella giovane generazione afghana che è nata in questo periodo e nell’universo femminile che ora si vede precluse le fondamentali libertà previste dalla dichiarazione universale dei diritti umani (ONU, Parigi, 1948).
Ma il disimpegno degli USA e della NATO non riguarda solo l’Afghanistan, è un processo che disallinea tutti gli equilibri dell’ordine mondiale. Si tratta di una problematica molto complessa che non può essere esaminata in questo breve articolo, ma di cui è possibile trarre qualche immediata riflessione. Innanzitutto, occorre porre in evidenza gli obiettivi che l’intervento militare si riprometteva; cioè contrastare efficacemente il terrorismo internazionale, dopo l’attentato delle torri gemelle (11 settembre 2001), colpendo le sorgenti e i mandanti nei luoghi ove essi operavano. I talebani avevano istituito un regime autocratico in Afghanistan che, secondo i servizi di intelligence internazionali, rappresentava “il brodo di coltura” del terrorismo islamico legato ad Al Qaeda, nemico dichiarato dell’Occidente.
L’intervento militare è riuscito, inizialmente, a cacciare dal Paese i talebani, ma essi, ritirandosi ai confini del Pakistan, nelle valli impervie e sui monti afghani, hanno continuato a segnare la loro presenza con attentati e stragi cruente che hanno colto di sorpresa i soldati occidentali, provocando numerose perdite (caduti: 53 soldati italiani, 500 britannici, 2500 statunitensi, ecc.). Tuttavia, tale situazione ha accresciuto l’importanza di un altro importante obiettivo della missione: portare pace e prosperità al popolo afghano, attraverso il controllo del territorio con la presenza militare della NATO e di altri contingenti multinazionali, fornire aiuti e competenze finalizzati allo sviluppo sociale ed economico del Paese. Nel frattempo, il sostegno internazionale doveva favorire la ricostruzione e l’ammodernamento delle istituzioni locali sul modello occidentale, contando che il tempo fosse “galantuomo” e, alla lunga, le nuove autorità afghane fossero in grado di governare autonomamente il loro Paese. Tuttavia negli ultimi anni, per tanti e svariati motivi, la spinta iniziale al cambiamento si è andata affievolendo, anche per l’incapacità dei nuovi governanti di mettere a frutto il sostegno occidentale, senza ricorrere al clientelarismo, alla corruzione, ai traffici illeciti, ecc.. Allo stesso tempo, si è fatta strada l’illusione che i problemi della sicurezza interna, del sostegno all’economia, dello sviluppo infrastrutturale e culturale dell’Afghanistan potessero rimanere una prerogativa dei nuovi “liberatori”.  Il castello di sabbia su cui poggiavano le nuove, traballanti istituzioni, tra cui un esercito di 250 mila uomini, si scioglieva appena gli occidentali comunicavano che avrebbero lasciato libero il campo. A questo punto, ai talebani si sono riaperte tutte le strade, compresa la possibilità d’impossessarsi, senza alcuna resistenza, dei mezzi, armi e materiali, anche di ultima generazione, donati al Paese dall’Occidente, in particolare dagli Stati Uniti.
In questa breve disamina non può essere tralasciato il modo inconcepibile in cui eserciti di professionisti hanno affrontato una ritirata, in modo scoordinato e senza una programmata strategia di uscita. Questa dipartita improvvisa ha sottolineato soprattutto l’insufficiente conoscenza della situazione locale, l’improvvisazione nell’organizzare il trasferimento dei richiedenti asilo, la distanza tra gli obiettivi dei contingenti militari e quelli della popolazione afghana. Il regime autocratico dei talebani ha segnato una prima vittoria, probabilmente non risolutiva. Essi dovranno dimostrare di essere in grado di costruire istituzioni capaci di governare 38 milioni di cittadini e dare loro un futuro, possibilmente non di fame, terrore, soprusi e tirannie.
Molti commentatori nella questione afghana hanno visto la sconfitta degli Stati Uniti, quale potenza mondiale promotrice dell’intervento, tralasciando la corresponsabilità degli altri Paesi partecipanti. Di fatto, gli USA e l’Europa sono strettamente legati tra loro, in particolare nell’ambito del sistema di difesa occidentale (NATO), ma anche nell’ONU e nell’ OSCE, Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, che rappresenta 57 Paesi. È da ricordare che le missioni “fuori area”, nel tempo denominate impropriamente missioni “di pace”, sono state decise con l’adozione del nuovo concetto strategico della NATO, approvato a Washington nel 1999, prima dell’intervento in Kossovo. Il paradosso più evidente, dopo i vent’anni di Afghanistan, è constatare che la lotta al terrorismo sia stata assimilata a questo tipo di missioni, stabilendo, per il combattimento in teatro operativo, analoghe regole d’ingaggio. Le missioni di peacekeeping generalmente non hanno un nemico ben definito, ma s’ interpongono tra due o più fazioni in lotta tra loro (Kossovo). Del resto è noto che il terrorismo agisce di sorpresa, nei luoghi e nei tempi meno attesi e pertanto è un nemico invisibile, subdolo e micidiale nel concludere le sue azioni. Per il suo contrasto fa premio la reattività delle forze, ma soprattutto un valido ed efficiente servizio d’intelligence. L’insuccesso in Afghanistan, pertanto, rimette in discussione sia la nuova NATO, che pur rimanendo un’alleanza difensiva è stata impiegata in modo offensivo contro il terrorismo, sia l’utilizzo di forze militari consistenti per favorire la pacificazione delle tribù afghane, sparse sul territorio, con la velleità di costruire un nuovo Stato democratico; cioè un cambiamento radicale della società afghana che necessita quantomeno il coinvolgimento continuo di più generazioni.
Dal punto di vista geopolitico, il ritiro dall’Afghanistan rappresenta senz’altro il disimpegno della grande potenza americana dall’area asiatica, ora contesa da altre potenze emergenti come l’Iran, la Russia la Cina e la Turchia. Tale distacco, peraltro, era già stato previsto dai Presidenti Obama e Trump; quest’ultimo, infatti, aveva connotato tutto il suo mandato con lo slogan “America first”. Occorre anche prendere atto della nuova politica statunitense, che sembra rinunciare al suo ruolo messianico volto a diffondere nel pianeta gli ideali del mondo libero. Ora sta iniziando una nuova guerra fredda, non più basata sui valori tra l’Occidente e l’Unione sovietica, ma per il predominio economico tra Stati Uniti e Cina. In questa contesa è necessaria vieppiù la voce di un’Europa, unita politicamente e forte anche a livello difesa.
L’Europa in Afghanistan ha brillato per la sua assenza e per la mancanza di una politica estera e di difesa comune, da tempo auspicata, ma mai realizzata per l’individualismo dei suoi 27 membri. Tuttavia, tra le tante difficoltà al riguardo è necessario considerare che la maggioranza dei cittadini europei, secondo un recente sondaggio (riportato dal “Corriere della sera”), non ha interesse ad un sistema di difesa europeo, necessario invece per contare di più sulla scena mondiale e garantire la pace.

mercoledì 10 febbraio 2021

Giornata del ricordo (10 febbraio). Foibe: in cammino verso la verità

 

Sino agli anni ottanta la storia ufficiale non ha parlato di questa immane tragedia e anche l’esodo di 350.000 dalmati è rimasto all’oscuro, in quanto argomenti imbarazzanti sia per gli storici che per i governanti.

Allora è opportuno ricordare alcuni passi fondamentali:


- Il 26 aprile 1915, l'Italia, che aveva deciso di entrare in guerra a fianco delle potenze dell'Intesa, firmò a Londra il famigerato patto che assegnava in caso di vittoria, oltre il confine al Brennero, tutta l'Istria con Trieste, Gorizia e la Dalmazia.

- il 28 giugno 1919, a Versailles, l'Italia ottenne solo l'Istria e la città di Zara, mentre il territorio di Fiume venne eretto a stato libero. Questo sarà suddiviso poi  tra Italia e il regno degli slavi del sud. Per gli italiani di Dalmazia, rimasti sotto l'amministrazione slava, iniziarono tempi molto duri, in quanto essi furono oggetto di persecuzioni, angherie e violenze, tesi a farli abbandonare i territori che avevano abitato per secoli.

- Con lo scoppio della seconda guerra mondiale e la successiva occupazione della Jugoslavia da parte delle truppe dell'Asse, la Dalmazia, inclusa la città di Spalato,  venne posta sotto amministrazione italiana, che nell’ambito della nazionalizzazione forzata, compì stragi, uccisioni e incendiò villaggi delle genti slave che sostenevano la relativa resistenza (vds. Circolare Roatta: qui si uccide troppo poco!).

-L'infausto armistizio dell'8 settembre 1943 lasciò completamente abbandonate a se stesse le popolazioni dell'Istria e della Dalmazia. I soldati italiani avevano abbandonato caserme, depositi di materiali e munizioni di cui si impossessarono i partigiani slavi. Solo Fiume e Pola, oltre a poche altre località costiere, nelle quali erano presenti reparti germanici, scamparono all'occupazione titina.

- Verso la fine del 1943, sotto la pressione tedesca che si apprestava a riconquistare l'Istria, cessarono i processi farsa titini verso gli italiani e si trovò un modo più sbrigativo per uccidere i prigionieri: l'infoibamento. Le vittime venivano portate sull'orlo della cavità carsica, legati uno all'altro con filo di ferro; qui venivano abbattute con armi da fuoco e fatte precipitare all'interno della foiba. In altri casi, i carnefici, per maggior crudeltà, uccidevano solo il primo della fila che cadendo nella voragine carsica si portava appresso gli altri prigionieri ancora vivi. Nelle località costiere si preferiva l'annegamento: i condannati, legati con filo di ferro e adeguatamente zavorrati venivano gettati in mare.

-Quanti infoibati? Non si saprà mai. L'unica foiba, oltre a quella di Monrupino, rimasta in territorio italiano, quella di Basovizza, ha fornito circa 500 metri cubi di resti umani e, secondo un calcolo di 4 individui per metro cubo, si arriva al numero di 2.000 assassinati. Questo è l'unico dato certo, poichè le autorità Jugoslave non hanno mai permesso di effettuare indagini sui territori in loro possesso.

-Nel marzo 1945 gli Alleati non capirono, o capirono solo molto tardi, che l'occupazione di quelle regioni da parte delle truppe slave di Tito, avrebbe gravemente condizionato le comunicazioni con l'Austria e l'Europa Centrale. Da parte di Churchill, furono date disposizioni per affrettare l'occupazione di Trieste e delle regioni dell'Istria prima che vi arrivassero le forze di Tito, ma ormai era troppo tardi. Grazie anche a Palmiro Togliatti, che aveva imposto alle formazioni partigiane italiane che operavano nella zona (Garibaldi), di porsi a disposizione del IX Corpus Jugoslavo. La corsa all'occupazione dell'Istria e della Venezia Giulia venne vinta dalle truppe slave che arrivarono per prime a Trieste.

- Zara, isola d'italianità in un mare croato, aveva subito nel corso del conflitto ben 54 bombardamenti, richiesti da Tito agli Alleati  con la scusa che la città era da considerarsi un'importante base strategica delle forze tedesche, affermazione priva di qualsiasi fondamento. In questo modo il maresciallo si assicurò la distruzione della città e l'eliminazione fisica del 20% dei cittadini, periti sotto le bombe alleate. All'arrivo delle truppe di Tito la vecchia Zara non esisteva più e i pochi scampati ai bombardamenti furono uccisi o scacciati dalla città.

- quello che successe a Zara, si ripeté un po’ in tutta l'Istria e a Fiume. La caccia agli italiani, non importa che fossero comunisti o meno, continuò con uccisioni, imprigionamenti, infoibamenti e stupri, costringendo alla fine più di 350.000 connazionali ad abbandonare le terre che avevano abitato per secoli.

 

 

domenica 11 ottobre 2020

La speranza nel futuro

All’inizio del 1990, ha fatto molto clamore un libro pubblicato dal maestro sconosciuto di Arzano (NA), Marcello D’Orta, nel quale egli raccoglieva alcuni temi, scritti con il linguaggio peculiare e autentico dei propri alunni, nei quali traspariva la povera realtà sociale del luogo. Questi bimbi, pur rassegnati e tristi nella loro condizione di indigenza, raccontavano con sgrammaticature, distorsioni e ilarità quanto spiegato dal maestro, nascondendo tra le righe un forte desiderio di riscatto, la voglia di giungere presto ad un futuro più gratificante della realtà in cui si trovavano. In questo periodo di pandemia, sicuramente anche noi, qualche volta, ci siamo fatti coraggio ripetendo la frase più significativa di quel libro, “Io speriamo che me la cavo”, avvalorando la saggezza manifestata inconsciamente da quei ragazzi nei loro temi, il cui significato esplicito si sostanzia nella speranza di una sorte migliore, in futuro.  

La speranza (unita alla fede e alla carità) è uno dei cardini della teologia cristiana e, come si sa, è l’ultimo sentimento a morire. Essa, pertanto, non è assimilabile a formule generiche come: ”andrà tutto bene”, volte ad esorcizzare un presente inaspettato e sgradito, ma rappresenta una presa di coscienza, impegnativa e coraggiosa, verso una realtà ancora da costruire attraverso l’esperienza del passato e sulla base dell’attuale situazione. Ciò è quanto avrebbe bisogno la nostra società in questi tempi pieni di incertezza. Invece, siamo invasi da una concretezza fasulla di numeri e previsioni labili, specie sulla lotta contro il virus che ha cambiato la nostra esistenza. Si mira giustamente al vaccino che salverà la vita: qualcuno afferma che esso è già pronto in Russia, ma altri temono che questo non sia sufficientemente testato. Si ritiene allora più sicuro aspettare quello in sperimentazione in Inghilterra, che potrebbe essere distribuito a fine anno, o meglio, tra un anno o forse due. I giovani, sempre citati come pieni di belle speranze, non si curano della pandemia, preferiscono divertirsi oggi, poi domani si vedrà. Gli adulti che gestiscono questo eterno presente, senza una limpida visione di futuro, ben si guardano d’ invocare la speranza per non essere considerati imbelli. I più anziani sono i soli attaccati alla speranza, per cercare di sopravvivere. La speranza non può nascere dall’incertezza, essa si erge su solide fondamenta precedentemente costruite.

Questo tema è stato affrontato anche nel meeting di Rimini, costatando che il nichilismo (disconoscimento dei valori tradizionali, per favorire la nascita di altri inesistenti), frutto velenoso del passato, ha attecchito maggiormente con lo sviluppo della pandemia, alimentando nuove forme di opinione come i negazionisti e i “no vax”.  Resta il fatto, tuttavia, che il virus non dà tregua e al momento lascia pochi spiragli all’ottimismo. Il mondo intero da marzo è sottoposto a un test di resistenza che ha rivelato i limiti delle strutture sanitarie, economiche e, soprattutto, quelle culturali e di opinione. La quarantena, senza volerlo, ha posto le nostre certezze davanti al tribunale esigente della vita, davanti all’evidenza inappellabile del presente, lasciando aperta una questione scottante:  in quale modo si può alimentare la speranza nel futuro? Don Giulio Carron, attuale guida di C.L., dopo una profonda analisi è giunto alla conclusione che “tutto dipende dal punto di appoggio che c’è nel presente, da ciò che possiamo cogliere ora, per restare in piedi”.

 “La società non può accettare un mondo senza speranza”, ha affermato Mario Draghi, in apertura del meeting e, nel proseguo, ha sottolineato che “la partecipazione alla società del futuro richiederà, ai giovani di oggi, ancor più grandi capacità di discernimento e di adattamento”. In conclusione, appare opportuna, innanzitutto, un’indagine precisa e pubblica sulle ragioni di quanto accade oggi, in quanto queste, una volta definite, ci faranno guardare in modo diverso al futuro. Ma occorre, in particolare, sostenere l’arricchimento culturale, una preparazione più accurata delle giovani generazioni,  rivolta a colmare i vuoti di una società edonistica, del profitto e dei consumi, per rispondere alle sue necessità di cambiamento strutturale, al fine di cogliere quelle opportunità che fanno ben sperare per l’avvenire.


giovedì 26 marzo 2020

In attesa della felicità

Comunemente, si pensa che la felicità sia un’illusione, un mito, una favola da raccontare ai bambini. Si ha la convinzione che pochi l’abbiano davvero conosciuta o abbiano potuto goderla a lungo e che, comunque, il suo raggiungimento debba avvenire attraverso il merito di privazioni e sacrifici, come la conquista di un trofeo  o di un premio. 
Gli studi scientifici dimostrano, invece, che il  cervello è programmato per produrla continuamente. In ogni istante, infatti, mentre noi rincorriamo pensieri, progetti, obiettivi, il cervello  si predispone a creare una condizione di pienezza e di soddisfazione, mantenendo sempre attive le centraline del piacere e della gratificazione, secernendo endorfine e neuro-trasmettitori che portano allo stato di benessere (felicità). Purtroppo, nell'esperienza di molte persone sono soprattutto gli stati d'animo negativi ad avere la meglio, i quali turbano ed affliggono la loro mente e non solo. Spesso, si guarda con diffidenza alle persone che pur avendo davvero poco, si mostrano felici. Si pensa che queste siano ingenue, di poche  pretese, ecc.. In realtà, sono infelici coloro che bramano disporre sempre di più, oltre alle loro possibilità. Costoro vivono sempre nell’attesa che si realizzi un progetto importante o si  presenti  un’occasione fortunata, per risolvere ogni loro problema e raggiungere la serenità. Anteponendo continuamente condizioni alla propria gratificazione, questa non si raggiungerà mai. 
L'opinione corrente è che i momenti felici  corrispondano a eventi eccezionali: il  matrimonio, il primo amore, la laurea, la firma di un buon contratto,  una vacanza memorabile, la nascita di un figlio, ecc.. Assuefatti ormai alla routine e alle abitudini, non si dà più alcuna importanza alle cose positive e alle piccole soddisfazioni che rallegrano la vita di  ogni giorno. Non si considera che essa è cosparsa di istanti felici; basta non soffocarli con i pensieri rivolti ossessivamente al passato. Occorre anche non ascoltare le sirene della nostra società nichilista che osannano valori fatui, come la ricchezza, il potere, il successo. Essi  non danno felicità, ma portano a  situazioni d’insoddisfazione, se non di delusione e talvolta di disperazione. 
Gioia e dolore sono stati interiori che coinvolgono le persone ogni istante, in quanto prodotti dal cervello, non dal mondo esterno. E’ un’opinione sbagliata pensare che la felicità si realizzi  in condizioni ideali o eccezionali. L’attesa spasmodica di questi eventi non fa altro che allontanare la gioia della loro conquista ad un futuro sconosciuto ed incerto che  potrebbe non arrivare mai. Così la felicità diventa una mera utopia, mentre l’insoddisfazione diventa la norma, che si sopporta solo mirando alla ricompensa promessa, ai credenti, oltre la vita terrena. Non si può trovare gioia e benessere nella presente situazione  di vita se questa è condizionata dalla  realizzazione di aspettative che potranno verificarsi o meno nel futuro. E’ necessario considerare, invece, che la felicità è presente entro ciascuno di noi, nella nostra mente, proprio oggi, in questo istante. Abbiamo tutto quello che serve per essere felici. Basta solo che lo vogliamo.