Crisi in Afghanistan: declino dell'Occidente?
Il ritiro dall’Afghanistan dei
contingenti militari, dopo vent’anni di missione, ha colpito l’opinione
pubblica mondiale, molti cittadini e osservatori occidentali. Le modalità e i
tempi in cui si è svolto il ripiegamento hanno assunto le caratteristiche di
una sconfitta militare, un colpo mortale alla credibilità dell’Occidente, al
quale il popolo afghano si era aggrappato per vedere la luce di un futuro migliore
sulla strada della democrazia e della modernità. Certo, il lungo periodo di
presenza militare e civile occidentale ha alimentato molte aspettative di
cambiamento, in particolare nella giovane generazione afghana che è nata in
questo periodo e nell’universo femminile che ora si vede precluse le
fondamentali libertà previste dalla dichiarazione universale dei diritti umani
(ONU, Parigi, 1948).
Ma il disimpegno degli USA e
della NATO non riguarda solo l’Afghanistan, è un processo che disallinea tutti
gli equilibri dell’ordine mondiale. Si tratta di una problematica molto
complessa che non può essere esaminata in questo breve articolo, ma di cui è
possibile trarre qualche immediata riflessione. Innanzitutto, occorre porre in
evidenza gli obiettivi che l’intervento militare si riprometteva; cioè contrastare
efficacemente il terrorismo internazionale, dopo l’attentato delle torri
gemelle (11 settembre 2001), colpendo le sorgenti e i mandanti nei luoghi ove
essi operavano. I talebani avevano istituito un regime autocratico in
Afghanistan che, secondo i servizi di intelligence internazionali, rappresentava
“il brodo di coltura” del terrorismo islamico legato ad Al Qaeda, nemico
dichiarato dell’Occidente.
L’intervento militare è riuscito,
inizialmente, a cacciare dal Paese i talebani, ma essi, ritirandosi ai confini
del Pakistan, nelle valli impervie e sui monti afghani, hanno continuato a segnare
la loro presenza con attentati e stragi cruente che hanno colto di sorpresa i
soldati occidentali, provocando numerose perdite (caduti: 53 soldati italiani, 500
britannici, 2500 statunitensi, ecc.). Tuttavia, tale situazione ha accresciuto
l’importanza di un altro importante obiettivo della missione: portare pace e
prosperità al popolo afghano, attraverso il controllo del territorio con la
presenza militare della NATO e di altri contingenti multinazionali, fornire aiuti
e competenze finalizzati allo sviluppo sociale ed economico del Paese. Nel
frattempo, il sostegno internazionale doveva favorire la ricostruzione e
l’ammodernamento delle istituzioni locali sul modello occidentale, contando che
il tempo fosse “galantuomo” e, alla lunga, le nuove autorità afghane fossero in
grado di governare autonomamente il loro Paese. Tuttavia negli ultimi anni, per
tanti e svariati motivi, la spinta iniziale al cambiamento si è andata
affievolendo, anche per l’incapacità dei nuovi governanti di mettere a frutto
il sostegno occidentale, senza ricorrere al clientelarismo, alla corruzione, ai
traffici illeciti, ecc.. Allo stesso tempo, si è fatta strada l’illusione che i
problemi della sicurezza interna, del sostegno all’economia, dello sviluppo
infrastrutturale e culturale dell’Afghanistan potessero rimanere una
prerogativa dei nuovi “liberatori”. Il
castello di sabbia su cui poggiavano le nuove, traballanti istituzioni, tra cui
un esercito di 250 mila uomini, si scioglieva appena gli occidentali comunicavano
che avrebbero lasciato libero il campo. A questo punto, ai talebani si sono riaperte
tutte le strade, compresa la possibilità d’impossessarsi, senza alcuna
resistenza, dei mezzi, armi e materiali, anche di ultima generazione, donati al
Paese dall’Occidente, in particolare dagli Stati Uniti.
In questa breve disamina non può
essere tralasciato il modo inconcepibile in cui eserciti di professionisti
hanno affrontato una ritirata, in modo scoordinato e senza una programmata
strategia di uscita. Questa dipartita improvvisa ha sottolineato soprattutto l’insufficiente
conoscenza della situazione locale, l’improvvisazione nell’organizzare il
trasferimento dei richiedenti asilo, la distanza tra gli obiettivi dei
contingenti militari e quelli della popolazione afghana. Il regime autocratico
dei talebani ha segnato una prima vittoria, probabilmente non risolutiva. Essi
dovranno dimostrare di essere in grado di costruire istituzioni capaci di governare
38 milioni di cittadini e dare loro un futuro, possibilmente non di fame,
terrore, soprusi e tirannie.
Molti commentatori nella
questione afghana hanno visto la sconfitta degli Stati Uniti, quale potenza
mondiale promotrice dell’intervento, tralasciando la corresponsabilità degli
altri Paesi partecipanti. Di fatto, gli USA e l’Europa sono strettamente legati
tra loro, in particolare nell’ambito del sistema di difesa occidentale (NATO), ma
anche nell’ONU e nell’ OSCE, Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione
in Europa, che rappresenta 57 Paesi. È da ricordare che le missioni “fuori area”,
nel tempo denominate impropriamente missioni “di pace”, sono state decise con
l’adozione del nuovo concetto strategico della NATO, approvato a Washington nel
1999, prima dell’intervento in Kossovo. Il paradosso più evidente, dopo i
vent’anni di Afghanistan, è constatare che la lotta al terrorismo sia stata assimilata
a questo tipo di missioni, stabilendo, per il combattimento in teatro operativo,
analoghe regole d’ingaggio. Le missioni di peacekeeping generalmente non hanno un
nemico ben definito, ma s’ interpongono tra due o più fazioni in lotta tra loro
(Kossovo). Del resto è noto che il terrorismo agisce di sorpresa, nei luoghi e
nei tempi meno attesi e pertanto è un nemico invisibile, subdolo e micidiale
nel concludere le sue azioni. Per il suo contrasto fa premio la reattività
delle forze, ma soprattutto un valido ed efficiente servizio d’intelligence.
L’insuccesso in Afghanistan, pertanto, rimette in discussione sia la nuova NATO,
che pur rimanendo un’alleanza difensiva è stata impiegata in modo offensivo contro
il terrorismo, sia l’utilizzo di forze militari consistenti per favorire la
pacificazione delle tribù afghane, sparse sul territorio, con la velleità di
costruire un nuovo Stato democratico; cioè un cambiamento radicale della
società afghana che necessita quantomeno il coinvolgimento continuo di più
generazioni.
Dal punto di vista geopolitico,
il ritiro dall’Afghanistan rappresenta senz’altro il disimpegno della grande
potenza americana dall’area asiatica, ora contesa da altre potenze emergenti
come l’Iran, la Russia la Cina e la Turchia. Tale distacco, peraltro, era già stato
previsto dai Presidenti Obama e Trump; quest’ultimo, infatti, aveva connotato
tutto il suo mandato con lo slogan “America first”. Occorre anche
prendere atto della nuova politica statunitense, che sembra rinunciare al suo ruolo
messianico volto a diffondere nel pianeta gli ideali del mondo libero. Ora sta
iniziando una nuova guerra fredda, non più basata sui valori tra l’Occidente e l’Unione
sovietica, ma per il predominio economico tra Stati Uniti e Cina. In questa
contesa è necessaria vieppiù la voce di un’Europa, unita politicamente e forte
anche a livello difesa.
L’Europa in Afghanistan ha
brillato per la sua assenza e per la mancanza di una politica estera e di
difesa comune, da tempo auspicata, ma mai realizzata per l’individualismo dei
suoi 27 membri. Tuttavia, tra le tante difficoltà al riguardo è necessario considerare
che la maggioranza dei cittadini europei, secondo un recente sondaggio
(riportato dal “Corriere della sera”), non ha interesse ad un sistema di difesa
europeo, necessario invece per contare di più sulla scena mondiale e garantire la
pace.
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