Il futuro dell'intelligenza artificiale

Il 7 novembre u.s., il direttore dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) , Roberto Cingolani, ha presentato “R1” il prototipo di umanoide pensato per interagire ed essere vicino all’uomo negli ospedali, nelle banche, negli aeroporti, ecc.. E’ il risultato di anni di ricerche e rappresenta il primo concreto passo verso la creazione di macchine in grado di risolvere problemi complessi interagendo con l’ambiente circostante, in particolare con l’uomo, cioè dotate di intelligenza artificiale. In questo campo troviamo già nei nostri computer figure animate che ci parlano e chiedono di cosa abbiamo bisogno. Le assistenti famose sono Siri, Cortana, Cloe, ecc.. lanciate sul mercato con i programmi di ultima generazione (Windows 10, iOS 6, ecc..). Il balzo in avanti in questa materia è reso possibile dai significativi sviluppi nel settore del riconoscimento vocale. Tuttavia, questo non è sufficiente per consentire la comprensione del significato delle parole e formulare, ad un computer, domande complesse e ricevere una risposta precisa.
Gli assistenti virtuali non sono altro che una particolare forma di intelligenza artificiale (IA), cioè programmi costruiti per risolvere una gamma di problemi in uno specifico settore. Ad esempio riescono a battere un campione di scacchi, tradurre in tempi rapidissimi e con un elevato grado di accuratezza un testo, guidare un’automobile. Solo a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, gli esperti di IA hanno iniziato a incrociare tra loro software in settori quali l’apprendimento, la statistica, il controllo automatico, le neuroscienze, allo scopo di comprendere, imitare il modo in cui gli esseri umani percepiscono e agiscono in un ambiente ben definito. La multidisciplinarietà dell’approccio, insieme all’aumento delle capacità di calcolo dei computer e allo sviluppo di algoritmi in grado di trattare enormi volumi di dati, ha permesso di realizzare significativi passi in avanti. L’ IA domina quindi già ogni aspetto della nostra vita. E’ presente sul nostro smartphone, nelle nostre auto – computer di bordo, navigatore satellitare –, sui nostri tablet e PC, e inizia a invadere le nostre abitazioni. I progetti futuri di IA mirano a rendere “intelligente” una miriade di oggetti che oggi non lo sono, dal frigorifero alla lavatrice, dal termostato al sistema di illuminazione di casa nostra. Alcune di queste IA domotiche sono già disponibili sul mercato e installate nelle abitazioni degli utenti più facoltosi. Recenti sviluppi tecnologici rendono ora possibile che lo specchio del bagno di casa fornisca, quotidianamente, informazioni sul nostro stato di salute. Già diverse applications sul nostro cellulare permettono di tenere sotto controllo una serie di indicatori di salute.
Se questa mole di dati viene messa a disposizione di algoritmi in grado di apprendere gradualmente alla stregua di un essere umano, ecco che può svilupparsi un’intelligenza artificiale dotata di coscienza di sé. Questo approccio ha già dato i suoi frutti, per ora abbastanza limitati. Google Translate, pur non essendo cosciente, traduce con una precisione di gran lunga superiore rispetto a pochi anni fa, perché “impara” dalle correzioni apportate costantemente dai suoi utenti e, soprattutto, dalla capacità dei suoi algoritmi di comprendere la semantica di un discorso analizzando milioni di pagine che i programmatori gli forniscono costantemente. Il problema principale è quindi la capacità di sviluppare software in grado di imitare i processi neuronici del cervello umano.
Lo Human Brain Project, finanziato dall’Unione europea nel 2013 con un miliardo di euro, punta proprio a quest’obiettivo: sviluppare una simulazione perfetta del cervello umano per metterla a disposizione dei neuroscienziati e sperare così di svelare il segreto dell’intelligenza. L’evoluzione tecnologica mette oggi a disposizione della comunità scientifica capacità di calcolo e di elaborazione dell’informazione impensabili fino a pochi anni fa. Avendo ormai quasi raggiunto i “limiti fisici” della celebre legge di Moore, che prevede il raddoppio delle capacità di calcolo di un processore ogni 18 mesi, i colossi dell’informatica sono da tempo al lavoro su soluzioni rivoluzionarie che consentono al computer di elaborare un trilione di operazioni al secondo: capacità di elaborazione circa cento volte maggiore di quella del cervello umano. La velocità, naturalmente, non è tutto. Per riuscire a simulare artificialmente un cervello umano bisognerebbe avere degli algoritmi in grado di imitare i processi di apprendimento. Il metodo più utilizzato al momento è quello delle reti neurali artificiali, che connettono tra loro chip al posto di neuroni e utilizzano tecniche di “apprendimento per rinforzo”: inizialmente, il software utilizza metodi del tutto casuali per risolvere un problema, ma quando riesce a portare a termine con successo un compito i circuiti che hanno condotto a quel risultato vengono rinforzati, mentre quelli che hanno portato a vicoli ciechi vengono indeboliti, esattamente come avviene nel nostro cervello, dove le sinapsi responsabili di azioni o riflessioni considerate efficaci sono gradualmente rinforzate.
Gli scienziati si pongono anche un altro problema: cosa succederà se un software supererà la sua programmazione e sarà in grado di acquisire una coscienza pienamente umana, senza che il suo “padrone” se ne renda conto? Questo scenario appare oggi più plausibile di quanto si potesse immaginare qualche anno fa. Il filosofo Nick Bostrom (Oxford University), in particolare, ha analizzato diversi casi in cui l’intelligenza artificiale potrebbe trasformarsi in una “minaccia esistenziale” per l’intera umanità. Non si tratta solo di scenari “alla Terminator” o “alla Matrix”, dove i robot riducono la nostra specie in schiavitù, ma anche più banali casi di errori di programmazione.

Nel film Lei, il protagonista s’innamora della sua assistente virtuale Samantha e intraprende con lei una relazione. Ciò può realmente accadere? Certamente non finché dette assistenti resteranno al livello di una Siri un po’ più sofisticata, ma data l’attuale propensione di tantissime persone a costruire rapporti con persone conosciute virtualmente, l’ipotesi non appare tanto lontana. La domanda più interessante è se invece futuri “umanoidi” siano in grado di innamorarsi degli esseri umani, o comunque provare per i loro proprietari umani un’attrazione, anche solo di tipo amichevole. Un robot davvero intelligente, infatti, acquisirebbe presto consapevolezza del fatto che l’umanità costituisca una minaccia alla sua esistenza. Il rapporto tra robot e utente umano sarà sempre, in una prima fase, squilibrato a favore di quest’ultimo, che ne è in fin dei conti il creatore. Certamente oggi non esistono oggetti autocoscienti, ma una volta che saremo in grado di crearli, essi potrebbero darci davvero una dimostrazione della loro intelligenza: darci informazioni sbagliate (mentire) per sopravvivere.

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